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Questo blog raccoglie le iniziative e il dibattito delle ragazze e dei ragazzi che portano avanti il Partito Democratico a Poggibonsi lavorando nei propri circoli e coordinandosi in un gruppo che ha l'obbiettivo di coordinare i giovani eletti nei vari circoli oltre a cercare di catalizzare i ragazzi che giovani si avvicinano alla politica.
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sabato 26 aprile 2008

25 Aprile in Piazza del Campo

Manifestazione riuscitissima ieri a Siena...
Vi propongo alcune foto (le autorità, il camioncino con la musica organizzato dal coordinamento provinciale giovani PD insieme alla federazione si Siena di Studenti di Sinistra, ecc)

giovedì 24 aprile 2008















Venerdì 25 aprile ore 16 alla Lizza inizio manifestazione...

Difendiamo la storia e i nostri valori

E sul 25 Aprile rieccoli. Del resto c’era da aspettarselo, dopo le sortite di Dell’Utri sui manuali di storia, gli attacchi a Napolitano di Libero come «capo della Casta» figlio della prima Repubblica, e l’«ipotesi di scuola» di Berlusconi, per liberare il Quirinale dall’ inquilino che sta «di là».

Rieccoli all’attacco su un loro classico cavallo di battaglia: la delegittimazione di Resistenza e Liberazione. Degradata la prima a faida civile con crimini rimossi, non del nazifascismo ma della sinistra. E la seconda a «festa qualsiasi», ignorata dagli italiani, non condivisa, e come tale degna di sparizione.

Così dopo i primi assaggi di cui sopra, alla vigilia del 25, il Giornale apre i fuochi. Contro il «mito dell’antifascismo»: «fascisti e antifascisti? Tutti fascisti in fondo». E contro il «senso» che la festa non ha più, sostenuta com’è solo dalle oltranze violente antifasciste, eredità di un passato che non muore. Ma a sostegno della tesi, due bufale plateali ora. Visibili a occhio nudo. La prima è un ridicolo sondaggio del Giornale, pomposamente presentato come attendibile da Giordano Bruno Guerri. Sondaggio con un campione di mille unità, e domande «imbeccate» del tipo: «Il 25 aprile non lo sento tanto come festa nazionale italiana. È d’accordo con questa frase?». Oppure: «La festa del 2 giugno unisce gli italiani più del 25 aprile. È d’accordo». Ovvio che le risposte, per più della metà, combacino esattamente con la domanda. Il che fa esultare di gioia Guerri e i titolisti: «Il 25 Aprile che divide». Come pure scoperta è la manipolazione che sempre il quotidiano del Biscione compie sul comunicato unitario dell’Anpi e di varie sigle partigiane, incluse quelle sindacali. Dove, nell’annunciare la manifestazioine nazionale a Milano sulla Liberazione, si legge della Costituzione «attuale e vitale» frutto della Resistenza, e «difesa dalla stragrande maggioranza degli italiani». Del pericolo di smarrirne la sostanza e i valori, sventato dall’ultimo Referendum. E dei «rischi per la tenuta del sistema democratico», in una con le evidenti difficoltà «per il suo indispensabile rinnovamento». Parole normali, da inquadrare in un contesto pacifico e civile più ampio, e che non si riferiscono affatto al responso elettorale di dieci giorni fa. Come invece il Giornale suggerisce goffamente: l’Anpi vuole fare appello ai partigiani e alla piazza violenta contro la destra! Bensì al dato innegabile, registrato da tutti i comentatori, che l’Italia è in una stretta delicata. Finanziaria, istituzionale e politica. Dove il bipolarismo resta selvatico, il debito incalza e le risorse scarseggiano. Mentre i rischi della disunità d’Italia sono grandi. Visto che il sistema paese è diviso, tra aree in recessione e rivolta dei territori del nord. E con la Lega che chiede di destinare il 38% dell’Irpef alla Padania.

Dunque appello strumentale, con demonizzazione preventiva delle celebrazioni del 25 aprile e assalto al cuore simbolico dell’eredità antifascista. Per spiantarla dal codice genetico di questa Repubblica, la prima veramente democratica della nostra storia. E in virtù del suo assetto parlamentare, universalistico, fondato sull’intreccio tra diritti civili e diritti sociali.

Il copione è già visto, e ben presto a destra torneranno anche le litanie ufficiali sull’esigenza di abolire il 25 aprile, dopo l’anticipo mediatico. Conviene però tornare a domandarsi perché a destra insistano con tanto furore su questo tasto. Perché ricomincino sempre daccapo. E perché guarda caso Silvio Berlusconi, non abbia ancora mai partecipato ad una festa della Liberazione. La risposta la conosciamo già. La destra, per la terza volta al governo e senza l’argine dei post-democristiani moderati, si sente estranea e ostile all’eredità della Resistenza e della Costituzione. Reputa «comunista» la prima, e «sovietica» la seconda (parole di Silvio). Nel caso migliore ritiene che Resistenza e Costituzione vadano depurate dai germi di sinistra o di centrosinistra. Eliminando contenuti e forma del lascito in questione. Quanto alla forma, viene fatta valere l’idea che è stata l’«egemonia comunista» a conferire centralità storica alla stagione ciellenista e costituente. Occupando lo spazio della memoria e ipotecando tutta la vicenda del dopoguerra, inclusi «consociativismo» e rimozione di crimini. Sui contenuti invece, la destra ha di mira esattamente l’impianto parlamentare da un lato, e quello sociale e «gius-lavoristico» dall’altro. Insomma l’obiettivo resta spazzare via le Repubblica dei partiti e la Repubblica fondata sul lavoro, con garanzie e diritti annessi. Naturale che per conseguire tutto questo la destra di governo debba condurre una battaglia senza tregua, per «sbattezzare» la nostra democrazia dai suoi crismi originari. E «battezzare» con altro «rito» lo stato democratico. Come? In chiave liberal-liberista, decisionista e federal-corporativa. Con al centro un dominus imprenditore privato, che imprima allo stato uno «stigma» proprietario e aziendale. E che sia personalmente garante delle spinte centrifughe e corporative, territoriali e non solo. Ecco quel che può diventare «regime» e che minaccia di rovesciare tutto il suo peso sugli ordinamenti, in virtù di una forza parlamentare mai conseguita fino ad oggi. La novità, lo si accennava prima, sta nel fatto che il centro moderato di una volta si è molto indebolito. E non fa più da contrappeso interno, a una destra radicalizzata e verosimilmente senza freni. Si spiega dunque così l’impennata preventiva sul 25 aprile, irragionevole e smodata a prima vista. In fondo, dal loro punto di vista, potrebbero anche lasciar decantare la questione, se sul serio mirassero a intese bipartisan. Di contro scelgono l’attacco, con l’artiglieria mediatica, per spianare il terreno alla (loro) politica. Bene, è necessario rilanciare e in modo giusto. Prima di tutto sull’eredità della Resistenza, valorizzandone a pieno il significato di «matrice democratica» e unitaria del nostro stato. Ma al contempo occorre contrastare in simultanea populismo e localismo. «Premierato» e presidenzialismo. E a difesa dei diritti del lavoro, e delle regole democratiche in economia. Si gioca qui la partita del 25 Aprile, che non è una banale riccorrenza, né un mero trastullo storiografico. Ma è, e resta, la nostra lotta, il bandolo della nostra libertà, ieri come oggi. E a cominciare da domani, riconquistando Roma al centrosinistra, con la nostra storia. Contro quella sia pur «revisionata» di Alemanno.

L'unità 23/04/08

domenica 20 aprile 2008

Ave Silvio, morituri te salutant

Poteva andare peggio». «No». Così, nel 2001, Altan sintetizzava gli umori dell'elettorato di centrosinistra. Stavolta invece poteva andare peggio: poteva vincere Berlusconi e in più potevano tornare in Parlamento tutti gli artefici della sua terza, terrificante reincarnazione. Invece qualcuno resta a casa. Mastella s'è subito riciclato commentatore tv grazie al Tg2, come le vecchie glorie del pallone che non riescono a trovarsi un mestiere. Tweed Berty s'è accomiatato dalla classe operaia all'Hard Rock Bar di via Veneto, mentre la Lega faceva man bassa di tute blu a Mirafiori e Sesto S.Giovanni; poi, fra una telefonata dell'affranto ambasciatore Mario d'Urso e un sospiro di Guia Suspisio, è passato a salutare Vespa e Mentana, per poi proseguire verso il circolo del bridge. Lui almeno s'è dimesso. Giordano invece no: Fausto gli ha intimato: «Mantieni responsabilità e rotta». Soprattutto rotta, il piccolo segretario rifondarolo è dato «sull'orlo delle dimissioni», ma i pompieri sono già stati allertati e alla fine lo salveranno. Pecoraro Scanio, che a Natale inaugurava il nuovo hotel a 7 stelle in Galleria a Milano alla disperata ricerca del voto operaio, l'altro giorno inseguiva l'orso bruno misteriosamente scomparso dall'Adamello. Ora avrà molte tempo libero, ma di dimettersi non ci pensa neppure: anzi annuncia «un congresso straordinario dei Verdi», che è proprio quel che ci vuole «per una grande sinistra ecologista». Già prenotate alcune cabine telefoniche per ospitare l'evento. Diliberto intende «ripartire dalla falce e martello»: ecco, proprio quel che mancava. Cesare Salvi invece vuole «riaprire un ragionamento col Partito socialista», anche se faticherà a rintracciarlo, perché purtroppo non esiste più (0,7%): scomparso dal Parlamento italiano dopo 116 anni di presenza ininterrotta. Quod non fecerunt Craxi fecerunt craxini. Boselli però dice che è tutta colpa di Veltroni: «Walter ha responsabilità gravissime» in concorso esterno - si suppone - con gli elettori. Ma ora anche lui minaccia «un congresso», mentre Bobo Craxi s'interroga: «Adesso dovremo capire quanta gente c'è dietro quello 0,7%». Pochina, a occhio e croce. Con le percentuali se la cavava meglio papa Bettino: quando chiedeva il 5%, arrivava subito l'architetto Larini e glielo portava, in contanti. Una prece anche per Willer Bordon, che tre mesi fa ballava spensierato con l'amico Dini sul Titanic del governo Prodi, contribuendo a mandarlo a picco: la sua Unione Democratica Consumatori ha strappato un eccellente 0,3%. S'è consumata, democraticamente. Da dietro un cumulo di monnezza si fa vivo pure il neoassessore bassoliniano Claudio Velardi, che esulta perché - testuale - «il risultato del Pd in Campania va al di là di ogni più rosea previsione»: in effetti ha raccolto qualche voto in più dei lettori del Riformista. Totò Cardinale, che ha lasciato il seggio ereditario alla figlia Daniela, quella che «non leggo libro perché studio», assicura che la ragazza «ha contribuito a determinare il buon risultato del Pd, s'è fatta conoscere». Ma soprattutto riconoscere. Una prece per il Platinette Barbuto: 0,4%, 122 mila voti, un trionfo se si pensa che sono 15 volte i lettori del Foglio e un terzo dei telespettatori di Otto e mezzo. Intanto è già iniziata la corsa sul carro del vincitore, sport nazionale da un paio di millenni. Tutti a magnificare la «metamorfosi del Cavaliere» (quale?), il «nuovo profilo di statista», la prossima «fase costituente», magari con nuova Bicamerale. Nella notte Massimo Giannini di Repubblica dice addirittura che «il voto a Berlusconi condona i suoi processi e i conflitti d'interessi», come se si potessero mettere ai voti i reati e le illegalità, come se le urne sostituissero i tribunali, la Consulta e la Corte di giustizia europea. Emma Marcegaglia ha chiesto che «le imprese italiane ritrovino fiducia»: soprattutto due, Mediaset e Mondadori, che infatti l'altra sera schizzavano in Borsa come non mai. Intanto lo «statista» tornava sui «brogli di Prodi nel 2006». Annunciava di esser «pronto ad accettare i voti dell'opposizione sulle riforme», bontà sua. E cenava con Tarak Ben Ammar, Confalonieri, Doris, Galliani, Fede, Adreani, Ermolli, senza dimenticare l'avvocato Ghedini e il medico personale Zangrillo: praticamente, il nuovo governo.
L’Unità (16 aprile 2008)
Marco Travaglio

Si prega demonizzare il demonio

Tanto per cambiare, i veri sconfitti sono gli «esperti». Anzitutto i fattucchieri degli exit poll, che a questo punto non si capisce che li paghiamo a fare: forse anche Vanna Marchi è più attendibile di loro. E poi le mosche cocchiere dei grandi giornali che hanno speso fiumi d'inchiostro e riempito colonne di piombo per insegnare ai partiti che cosa si deve fare per vincere le elezioni e conquistare gli incerti. Gli incerti, cioè i grillini anticasta e i delusi dei grandi partiti, han fatto come sempre a modo loro. Alcuni sono rimasti a casa, ingrossando del 3 per cento le file del non voto (qualcuno dice che sono pochi: ma andatelo a raccontare a Piercasinando e a Tweed Berty, che il 3 per cento è poco). Altri si sono trascinati alle urne, votando per i due partiti più identitari, quelli che parlano chiaro, picchiano duro e si sa che cosa vogliono: la Lega Nord e l'Italia dei Valori. Gli esperti di nonsisachè avevano completamente ignorato Bossi e Di Pietro, considerandoli due incidenti della storia. Bossi parlava di fucili e Calderoli di cannoni, ma nessuno lo prendeva sul serio o dedicava editoriali alla nuova svolta secessionista del Carroccio, liquidandolo come folklore locale. Di Pietro predicava contro l'inciucio, per la libertà e il pluralismo dell'informazione soprattutto in tv, per la legalità e la tolleranza zero anche per i colletti bianchi, e veniva zittito come il solito giustizialista demonizzatore, lontano dai «veri problemi del paese» (che naturalmente sarebbero le «grandi riforme», da fare ovviamente «insieme», magari con un bel governissimo benedetto da Confindustria e Vaticano). Quei gran geni di Panebianco e Polito spiegavano addirittura a Veltroni che doveva scaricare l'Idv, magari per imbarcare qualche salma craxiana, ma soprattutto per non pregiudicare il Bene Supremo: cioè il «dialogo», la «legittimazione reciproca», le «riforme insieme». Ora che Bossi è decisivo per il Pdl e Di Pietro per il Pd, questi cosiddetti «esperti» cadranno dal pero e ci spiegheranno che le esigenze del Nord e i valori della legalità sono molto sentiti dalla gente. Oppure liquideranno il tutto come un «voto di protesta», trascurando la proposta. Che era molto chiara, netta e identitaria (fra l'altro, per quanto riguarda la Lega pigliatutto, leggermente inquietante). E la gente, soprattutto in tempo di crisi e di incertezze, sceglie le fisionomie ben definite. L'aveva scritto, purtroppo invano, Giovanni Sartori: le elezioni si vincono, da che mondo è mondo, attaccando l'avversario nei suoi punti deboli. O almeno nominandolo, ogni tanto. Solo così sì mobilita l'elettorato e si svegliano i titubanti dal letargo. Che cosa voleva la Sinistra Arcobaleno dell'imbolsito Tweed Berty? Non s'è capito (a parte lo scriteriato appoggio alla fantomatica «cordata italiana» per Alitalia), e ha perso. Che cosa voleva Piercasinando, sempre lì in mezzo tra color che son sospesi? Non s'è capito, e ha perso. Che cosa voleva il Platinette Barbuto, che diceva no all'aborto, ma sì alla legge 194? Non s'è capito, ed è letteralmente scomparso. Non pervenuto. Checché ne dicessero i tifosi del pareggio, i predicatori del dialogo, quelli convinti che «Berlusconi è cambiato», anzi «è stanco e forse lascia a Gianni Letta», che si apre «un nuovo ciclo» e che «la demonizzazione non paga», Silvio Berlusconi torna al potere per la terza volta infischiandosene del dialogo, restando sempre uguale a se stesso, e demonizzando gli avversari raccontando balle su balle, mentre gli avversari, che avrebbero potuto demonizzarlo dicendo semplicemente la verità, vi hanno rinunciato. Ecco, c'è almeno questo di buono: che nessuno, si spera, si azzarderà più ad attribuire le vittorie di Berlusconi ai «demonizzatori» che «fanno il suo gioco». In questa campagna elettorale, a parte l'Economist, il Financial Times, il Wall Street Journal, il New York Times, il Newsweek, lo Spiegel, Le Monde e altri organi del Comintern, l'unico demonizzatore è stato lui, che è riuscito persino a trasformare Uòlter in uno «Stalin mascherato» e dedito ai brogli (mentre i suoi brogliavano a più non posso). E ha vinto. Magari, ora che farà il suo terzo governo-regime a reti unificate (ha già annunciato che «Santoro continua a fare un uso criminoso della televisione pubblica» e qualcuno dovrà provvedere e qualcuno che provveda si troverà), varrebbe la pena di fargli l'opposizione e di demonizzarlo almeno un po'. Così, tanto per vedere l'effetto che fa.
L’Unità (15 aprile 2008)
Marco Travaglio

sabato 12 aprile 2008

Berluscomiche

Fortuna che la campagna elettorale è durata così poco, perché dallo scioglimento delle Camere (6 febbraio) il cavalier Berlusconi è riuscito a farsi fraintendere una sessantina di volte in 60 giorni. La cordata per Alitalia, con o senza figli. Le precarie promesse in spose a Piersilvio. La lotta e/o elogio all’evasione fiscale. Veltroni maschera di Stalin. Le grandi intese con la maschera di Stalin, I brogli. Le schede. La guerra al Quirinale. Il voto agli immigrati (pesce d’aprile). La sinistra cogliona, anzi no. Mastella in lista, anzi no. Le donne in cucina a fare le torte. Ruini alleato per il voto disgiunto. E il Viagra, e le veline, e noi maschi latini. E il nuovo Contratto con gli italiani: non pervenuto. E la sfida in tv a Veltroni (»lo straccio chiunque»): mai vista. E i giornali della Fiat che «non stanno né di qua nè di là», dunque non sono liberi, diversamente da quelli suoi e del Ciarra. Strepitoso quando ha promesso in tv (almeno due volte) «il traforo del Frejus», purtroppo già fatto dal 1871. Favoloso quando s’è attribuito una statura di «un metro e 71». Grandioso quando ha rievocato, dinanzi alla mummia di Riotta, gli sforzi sovrumani compiuti per trattenere Enzo Biagi, purtroppo fuggito dalla Rai con la liquidazione. Fantastico quando ha negato l’editto bulgaro e le corna al vertice di Caceres. Mitico quando ha annunciato che, se lo intercettano un’altra volta, espatria. Meraviglioso quando ha eccepito sulla cultura di Antonio Di Pietro (»La laurea gliel’han regalata i servizi»), per poi sfoggiare la propria citando «San Pietro sulla via di Damasco» (lui la laurea l’ha presa per corrispondenza?). Purtroppo Air France, non abituata al personaggio, l’ha preso sul serio e s’è ritirata da Alitalia. Uòlter invece lo conosce e ha ignorato i suoi deliri, evitando di restare impantanato nella solita girandola di detti e contraddetti. Ma il suo lungo silenzio sull’avversario ha fatto sottovalutare a molti indecisi i pericoli di un Berlusconi III, con relativi conflitti d’interessi (aumentati con i nuovi processi per corruzione, con l’ingresso in Mediobanca e con l’acquisto di Endemol che fornisce programmi alla Rai) e una corte dei miracoli ancor più scombiccherata dell’ultima: in lista col Pdl, oltre a una ventina di pregiudicati, ci sono persino Maurizio Saia, che diede della “lesbica” a Rosy Bindi; e il trio Barbato-Gramazio-Strano, che festeggiarono a sputi, champagne e mortadella la caduta di Prodi in Senato e il Cavaliere aveva giurato di non ripresentare. Mancano le parole? Basta copiare quelle di Indro Montanelli, anno 2001: «Il berlusconismo è la feccia che risale il pozzo, la destra del manganello». O l’appello firmato sette anni fa da
Bobbio, Galante Garrone e Sylos Labini: «A coloro che, delusi dal centrosinistra,
pensano di non andare a votare diciamo: chi si astiene vota Berlusconi. Una vittoria del Polo minerebbe le basi stesse della democrazia». Purtroppo i grandi vecchi sono morti, e anche noi ci sentiamo poco bene.
Marco Travaglio

venerdì 11 aprile 2008

Guccini per "Domenica fai il bis con L'Unità"

«Domenica, fate qualcosa di buono: comprate due copie dell’Unità. Una la regalate, l’altra la infilate nella tasca posteriore del pantalone. Non so se servirà a far vincere le elezioni a Walter Veltroni, ma di sicuro si entra per sempre in una vecchia canzone che si intitola “Eskimo”... ». A parlare è Francesco Guccini, autore di innumerevoli canzoni che la sinistra ha storicamente fatto sue, da «La Locomotiva» a «Eskimo». Proprio in quest’ultima viene citata l’Unità: «Con l’incoscienza dentro al basso ventre e alcuni audaci in tasca l’Unità... ». Un giornale, dice Guccini, «che parla chiaro, senza ipocrisie».

Azzardiamo: cos’è che lega, al di là delle reciproche passioni, una testata come l’Unità a Guccini? Toglietevi dalla testa che questa sia la prima domanda che rivolgiamo al più grande troubadour d’Italia. Secondo noi, ciò che accomuna questo quotidiano e Guccini è l’epica. Il primo la vive, il secondo la canta ma la minestra è la stessa. Tanto è vero che, lo si è ricordato in altri tempi, la sola volta in cui il nome dell’Unità è comparso nel testo di una canzone di larga diffusione è stato quando Francesco ha avuto la bellissima idea di citare il giornale fondato da Gramsci in quella commovente carrellata di immagini ruggentemente démodé titolata «Eskimo». Flashback: il brano racconta, per gli infelici che non lo sanno, cos’è stato il tempo andato, il suo e - a dispetto del fatto che lui si senta sotto il profilo emotivo il più vecchio del mondo - molto anche il nostro. Un tempo «barbaro» per durezze e per quella straordinaria capacità distribuita a piene mani a tanti giovani che allora avevano vent’anni «o giù di lì» di «vivre débout» di vivere stando in piedi, ben dentro quel tempo senza tempo, che se ne fregava della fisica scadenza dell’orizzonte in cui l’esistenza si consumava e si consuma. «Con l’incoscienza dentro al basso ventre - recitava Guccini - e alcuni audaci in tasca l’Unità»: rieccoci nella barbarità di una doppia, guascona «cazzutaggine», davanti e di dietro. Davanti c’era l’argentina arroganza di un sesso «libero» esercitato anche come professione di fede nei confronti di una teoria della liberazione che non aveva fatto i conti con l’Aids e che vantava una sua impertinente, politica dimensione; dietro, c’era quell’altra «erezione», provocante al limiti dell’oscenità sociale, costituita dall’Unità ripiegata tre volte e infilata, con la «U» della testata bene in vista, nella tasca posteriore dei bluejeans. Avere l’Unità in tasca poteva allora significare il più delle volte essere guardati male quasi dappertutto, non riuscire a trovare un posto di lavoro, far fatica a ottenere un alloggio pubblico, farsi diffidare dal preside della scuola, non essere invitato alle feste di compleanno delle amiche che avevano genitori «perbene», farsi diffidare dal datore di lavoro, essere segnalato alla polizia politica da qualche zelante cittadino. E non ottenere il visto per gli Stati Uniti, nel caso qualche compagno avesse avuto voglia di toccare con mano quel magnifico paese in cui gironzolavano Dylan e Peter, Paul and Mary, Joan Baez e Gregory Corso, Chomsky e William Borroughs.

Alla faccia del «consociativismo» che ora molti rimproverano al vecchio Pci. Era davvero una provocazione questo giornale...
«Non mi far fare il vecchio saggio: non mi sembra che nel tempo di Berlusconi la provocazione sia venuta meno. Anzi, nessuno prima aveva detto che l’Unità era un giornale assassino o terrorista. Invece, questo tipo di accuse è fatto recente. Si potrebbe dire che si è fatto un salto indietro ma non ne sono convinto...»

Nemmeno io: per la strada le cose son cambiate, tra la gente della vita quotidiana l’Unità non è più un saio da appestato...
«Mentre, invece, per la politica sì. Lo è ancora per la grande scena allestita da questo venditore molto ricco. Insomma, la testata mi sembra inserita a forza in un indice ufficiale che tiene ormai poco conto della realtà...»

Se aggiungi che, in virtù di questo indice all’Unità viene ancora negata la pubblicità che le spetta per le sue dimensioni e la sua diffusione, il quadro mi pare abbastanza fedele...
«Sarà vero che i tempi sono mutati ma non ci scommetterei che l’Unità non abbia nemici anche dentro la sinistra. Non ho mai capito perché Furio Colombo sia stato tolto dalla direzione. Chi è che ha voluto fare un favore a Berlusconi? Padellaro ha mantenuto la rotta, per fortuna, ma quella “decapitazione” si capiva benissimo cosa voleva dire...»

Torniamo all’epica, che forse è meno dolorosa. Secondo te, cos’è che fa dell’Unità ancora un giornale di “lotta”?
«Il coraggio, credo. Sono affezionato a due quotidiani, Repubblica e l’Unità, li leggo ogni giorno da molti anni. Parlano chiaro, senza ipocrisie e ci vuole coraggio per farlo. Le altre testate, mi pare, lasciano vedere di seguire con grande cautela ciò che accade, lo spostamento degli equilibri di potere nel paese; comunque vada non vogliono restare tagliati fuori e questo non originale modello di comportamento lo chiamano “indipendenza”. Ciascuno ha i suoi obiettivi e il suo vocabolario...»

Forse non siamo tutti d’accordo sull’interpretazione delle cose di oggi. Tra questione dei rifiuti in Campania e Alitalia, si ha per esempio la sensazione che questo paese non sia più in grado di “mantenersi”, che non abbia più le risorse per pagarsi il suo tenore di vita “occidentale”, che quindi può essere venduto a pezzi...
«Credo che siano più sensazioni ben motivate che condizioni oggettive. Viviamo un momento di sbandamento, economico, politico, psicologico, e tutto appare, a chi ha a cuore la consapevolezza e la libertà, grigio e senza speranza. Freniamo l’ansia e guardamoci attorno. Lo sai che, tanto per dirne una, nel Pisano c’è un comune che è diventato ricco trattando il riciclaggio delle spazzature? Basta organizzarsi. Bassolino avrà anche le sue responsabilità, ma, sacrificato lui, pare che la “bomba” sia esplosa dal nulla e non è vero. Calma e sangue freddo: ora abbiamo un problema, impedire alla cultura di Berlusconi di tornare a governare la cosa pubblica. Guarda la sceneggiata che ha fatto sull’Alitalia e sulle cordate alternative all’Air France: questo è il suo stile di governo mentre ancora non sta al governo. Pensa dopo. Se vince lui, fra una decina di giorni di problemi ne avremo una quantità esagerata...»

Pessimista?
«Non so cosa pensare. So quel che voglio. Vorrei che Veltroni vincesse, è il solo che può battere questa destra, è incontestabile. Ma vorrei anche che vincesse senza quei margini assurdi che hanno tolto a Prodi il diritto di governare fino in fondo. E per un settimana non ho alcuna intenzione di sganciarmi da questi semplici scongiuri. Se vogliamo cambiare questo paese quel tanto che serve a garantire un minimo di serenità alle nuove generazioni, conviene vincere, davvero...»

Il tuo pubblico sta su questa barricata?

«A quel che sembra, sì. A dispetto di una parte del paese che sbraita mossa da un egoismo da giardinetto privato, che si è fatta i soldi sull’onda dell’euro sbancando milioni di lavoratori, che ora straparla con l’arroganza del nuovo ricco sulla testa di un mare di nuovi poveri».

Cantavi: “col ghigno e l’arroganza dei primi della classe”
«Ah, ero io che cantavo questo?»

Prego: professor Guccini, vada pure con lo spot...
«Benissimo: domenica, fate qualcosa di buono: comprate due copie dell’Unità, una la regalate, l’altra la infilate nella tasca posteriore del pantalone».

Pare che se si fa così si vincono le elezioni
«Questo non lo so, ma di sicuro si entra per sempre in una vecchia canzone che si intitola “Eskimo”».

Bice Biagi su Silvio

Bice Biagi in un’intervista a Gianni Rossi per www.articolo21.info:

"Non vorrei fare la psicologa, soprattutto di Berlusconi. Mi sembra oggettivamente strano, come se la memoria di quello che è successo gli desse fastidio, come se volesse cancellare qualcosa. Ma purtroppo i fatti non si cancellano, soprattutto quando sono documentati. E, comunque, credo che di fronte a certe affermazioni non ci siano né giustificazioni ne scusanti. […] Dalle mie parti si dice che chi ha provato l’acqua calda, ha paura anche di quella tiepida. E noi l’abbiamo provata! Mio padre ricordava sempre quando Montanelli gli diceva: “Va bene, va bene Berlusconi, perché è come un vaccino”. E mio padre commentava: “Ho paura che abbiano sbagliato la dose!”. […] Vedo forti pericoli, perché leggo come tutti le dichiarazioni. Ancora una volta, Berlusconi parla di uso criminoso della televisione e, poi, sento dire di revisionismo dei libri di storia in materia di Resistenza. Sento parlare di eroi rispetto a persone condannate per mafia. Tutto questo certamente desta preoccupazioni. Sento che si attacca addirittura il Quirinale. Insomma, non sono sensazioni piacevoli, che dovrebbero far sperare casomai in un futuro di libertà, di democrazia, in un paese normale."

martedì 1 aprile 2008