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Questo blog raccoglie le iniziative e il dibattito delle ragazze e dei ragazzi che portano avanti il Partito Democratico a Poggibonsi lavorando nei propri circoli e coordinandosi in un gruppo che ha l'obbiettivo di coordinare i giovani eletti nei vari circoli oltre a cercare di catalizzare i ragazzi che giovani si avvicinano alla politica.
Per contattarci la nostra mail è: coord.giov.pd@gmail.com
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lunedì 15 dicembre 2008

Nato il nuovo sito

Oggi è nato il nuovo sito di Generazione Democratica di Poggibonsi.
lo trovi su: www.pdpoggibonsi.it/generazionedemocratica

sabato 8 novembre 2008

Primarie dei giovani democratici

Tutte le informazioni sulle primarie dei giovani democratici QUI


lunedì 15 settembre 2008

lunedì 8 settembre 2008

Manifesto dei Giovani Democratici


Pensare l’ Europa, modernizzare l’Italia, vivere il mondoPer un nuovo “umanesimo” EuropeoIl sistema economico e ambientale del pianeta è da decenni caratterizzato da continui e repentini processi di trasformazione. Il superamento dello Stato-Nazione come esclusivo titolare della sovranità, l’ampliarsi della cifra di interdipendenza globale, l’accentuazione della competizione fra sistemi e macroaree territoriali, lo sviluppo e la diffusione delle nuove tecnologie dell’informazione, sono i tratti distintivi dell’odierno “spazio globale”. La frattura dell’alleanza tra Stato Mercato e Democrazia - e quindi tra politica ed economia - che aveva caratterizzato il progetto di prima modernità, pone allo schieramento riformista del XXI secolo nuove domande di libertà e di giustizia sociale. Un inedito ordine del mondo che necessita di più politica e che, invece, registra la sempre maggiore difficoltà da parte di essa di porsi all’altezza del livello attuale dello sviluppo delle forze produttive, della circolazione e dei consumi ovvero, la sempre maggiore distanza progettuale fra una economia cosmopolita e globale e una politica nazionale (o peggio) regionale, micro-territoriale e localistica. La guerra al terrorismo, a otto anni dalla sua dichiarazione, ha prodotto qualche effimero successo e numerose tragedie. La destabilizzazione di un’area del pianeta che va da Marrachech a Jakarta, i sanguinosi pantani di Afghanistan e Iraq sino al mai risolto dramma israelo-palestinese, mostrano con tutta evidenza il fallimento della strategia del solo hard power e la necessità di un rinnovato impegno nella politica del dialogo. Sul versante europeo l’Unione vive forse la crisi più grave della sua storia. Compressa tra le aspirazioni neo-isolazioniste di alcuni paesi membri e l’incapacità di mostrarsi compiutamente attore globale, paga dazio alla crisi economica e rischia di arenarsi come progetto culturale, prima che economico. Ad est, nuove e pericolose tensioni attraversano quello che fu il blocco sovietico e rischiano di innescare una nuova devastante corsa agli armamenti mentre, ad oriente, un nuovo continente cresce a ritmo triplo rispetto al resto del mondo e si appresta a costruire dopo cinquecento anni un nuovo impero. Lo stato climatico del nostro pianeta ci pone di fronte all’ipotesi non più remota di scenari molto vicini ad una catastrofe ambientale senza ritorno. Abbiamo il dovere di lasciare alle future generazioni un mondo ancora vivibile, e se possibile più vivibile del nostro: affrancato dalla dipendenza dal petrolio e dai combustibili fossili; in quanto basato su un’organizzazione energetica razionalizzata e imperniata sulla diffusione capillare, a rete, delle fonti rinnovabili; affrancato dall’ideologia della crescita illimitata dei consumi, che ha come rovescio l’emergenza rifiuti, per la gran parte non riciclati né smaltiti. Esiste, “il 50 per cento delle probabilità che le future generazioni non vedano l’inizio del nuovo secolo”. Le nuove generazioni hanno il dovere di puntare sulla dimensione ambientale come volano di sviluppo per fare delle caratteristiche naturali di un paese, della bellezza dei territori, della qualità nel settore agroalimentare, delle aree protette un punto di forza della sua economia. Investire risorse nell’ambiente significa credere nell’innovazione, dare attuazione a nuove tecnologie a sempre minor impatto, diffondere un’idea di progresso che possa vedere attori tutte le parti sociali e i cittadini di ogni livello socio-economico e culturale. Quella energetica, è una sfida tutta aperta e tutta da vincere, che le giovani generazioni nella loro naturale spinta al cambiamento, non possono non affrontare. La globalizzazione con il movimento sempre più rapido delle merci, dei capitali e dei saperi, sta sviluppando con progressiva intensità consistenti flussi migratori di persone – in qualche modo simmetrici agli imponenti fenomeni di delocalizzazione dell’industria - in cerca di lavoro o semplicemente di una speranza di vita migliore.Ciò che pone a sua volta inedite esigenze di cittadinanza, integrazione e partecipazione democratica a livello globale e locale. Tutto questo, riassumibile con l’immagine di nuove e poderose masse umane che si affacciano sulla soglia della storia e del progresso, impone una riflessione generale e seria sul futuro del pianeta, sulla sostenibilità dell’attuale modello di sviluppo, ma anche sulla natura stessa e sulla qualità e il valore della democrazia occidentale.A tali dinamiche “strutturali” si aggiunge un processo imponente di mutazione globale delle identità e delle culture. I singoli individui e le comunità sono infatti oggi immersi in un flusso comunicativo continuo, in cui si muovono costantemente come “attori” passivi e attivi di un complesso sistema mediatico, veicolo delle visioni del mondo e talvolta di bisogni indotti, che ha marginalizzato i tradizionali vettori di conoscenza e formazione di “senso comune”: i giornali, i libri, ma addirittura anche l’educazione familiare, sociale e scolastica. Nella cosiddetta “società dello spettacolo” la maggior parte di noi è esposto a continue sollecitazioni fin dalla più giovane età, quando ancora i personali strumenti cognitivi e interpretativi sono in via di costruzione, ponendo inediti compiti per la famiglia, per le tradizionali politiche scolastiche, e per nuove politiche di formazione lungo tutto l’arco della vita a contrasto dell’analfabetismo recidivo e di ritorno. La posta in gioco è la competenza critica dei cittadini, garanti ultimi di un corretto funzionamento della democrazia. Per la complessità e la delicatezza di questi scenari è necessario potenziare e costruire, sin dentro le opinioni pubbliche euro-atlantiche, il consenso sul ruolo dei soggetti pubblici sopranazionali. Il progetto politico e costituzionale dell’Unione Europea è la priorità politica e culturale degli innovatori del XXI secolo. Nel solco della nuova Europa, seminato a Lisbona, dovrà crescere ed affermarsi una intera generazione di italiani. È nello spirito dell’Europa, infatti, nelle sue ragioni e nei suoi valori, che risiedono gran parte delle ragioni dell’impegno politico delle ragazze e dei ragazzi italiani; quella generazione che, a partire dalla specificità dell’esperienza dei soggiorni di studio Erasmus, dimostra di essere quella più direttamente coinvolta dall’incidenza della prospettiva comunitaria nella formazione di un idem sentire e di una comunanza di valori tra i popoli d’Europa: la pace giusta come costante esercizio politico fra i conflitti, il rispetto dei diritti umani e civili, la libertà di circolazione di idee e persone, il mercato concepito come uno spazio di libertà e di intrapresa a cui presidiano regole certe e salde, il lavoro come tratto fondamentale della cittadinanza e perciò in grado di liberarsi dalle tante forme di precarietà, la sussidiarietà verticale e orizzontale rispettosa della libera iniziativa e dell’aspirazione delle comunità locali all’autogoverno, l’euro e la sua forza di moneta globale. La nostra è la generazione del multilateralismo, del dialogo tra i popoli e le religioni, della corrispondenza tra la costruzione della pace e la realizzazione della giustizia. Per questo le straordinarie mobilitazioni per la pace e per una globalizzazione più giusta, hanno segnato il momento di prima socializzazione politica di migliaia di giovani italiani. Anche da quella forza e da quell’entusiasmo è necessario trarre continuo alimento per la futura vita di una grande organizzazione progressista.Per una nuova e diversa idea della modernizzazione nazionaleI problemi dei giovani italiani sono quelli di un intero paese che deve imparare a tornare a guardare con maggiore fiducia al futuro. Le incognite con le quali essi si confrontano, sono quelle della transizione a una prospettiva di sviluppo fondata sul principio di qualità e di apertura, che possa coniugare maggiori possibilità di mobilità con un’ampia gamma di opportunità e di tutela e renda possibile l’avvio e il perseguimento, per ciascuno, di un autonomo cammino familiare e professionale. La questione generazionale in Italia non può essere declinata solo su basi vertenziali. Essa è, infatti, oggi più che mai questione che riguarda la sostenibilità di un equilibrio politico, economico, sociale. La democrazia italiana, sbocciata dalle macerie della dittatura fascista, si avviò dal primo dopoguerra e per oltre un quarto di secolo, su di un sentiero di sviluppo sostenuto, recuperando in poco tempo una parte importante del ritardo che la divideva dai paesi con più elevati livelli di benessere economico. Lo sviluppo, pur connotato da tensioni sociali e conflitti distributivi, beneficiò di diversi fattori, endogeni ed esogeni, che consentirono di conseguire fortissimi guadagni in termini di produttività del sistema economico e di conseguenza, un innalzamento complessivo della qualità della vita e della diffusione della ricchezza. La crescita dell’economia, di durata e intensità del tutto nuove per il nostro paese, fu accompagnata da un innalzamento progressivo del livello d’istruzione della popolazione, che combinato efficacemente con lo stato delle conoscenze tecnologiche, determinò l’inclusione di nuove forze lavoratrici e contribuì alla modernizzazione della società, consentendo la tenuta della democrazia anche nei momenti in cui più forte e violento si levò dalla follia terrorista l’attacco al cuore dello Stato. IstruzioneDai primi anni Novanta, la semplificazione della mobilità di beni e capitali finanziari, l’avvento delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, le biotecnologie, le tecnologie dei materiali sottili, sono intervenute a mutare radicalmente le caratteristiche dello sviluppo economico a livello globale. Esse disegnano nuove gerarchie, rivoluzionano i processi produttivi, modificano in modo sostanziale - soprattutto nei paesi avanzati - le caratteristiche dell’input di lavoro domandato dalle imprese, la struttura dei consumi, la tipologia e il contenuto tecnologico delle produzioni. Tali trasformazioni hanno gradualmente reso determinante la capacità di un paese di accrescere e migliorare continuamente il livello di istruzione della sua popolazione. Questo motore della crescita civile ed economica riveste una capitale rilevanza nelle fasi di progresso tecnico come quello odierno; l’acquisizione di un livello avanzato di conoscenze è, infatti, condizione essenziale perché un sistema possa innovarsi adattando le sue strutture produttive al nuovo paradigma tecnologico; ma i benefici derivanti dall’innalzamento complessivo del tasso d’istruzione non possono misurarsi con soli parametri econometrici. Il “capitale sociale” - definito come l’insieme delle istituzioni, delle norme sociali di fiducia e reciprocità nelle reti di relazioni formali e informali che favoriscono l’azione collettiva e costituiscono una risorsa per la creazione di benessere - è uno straordinario fattore di sviluppo sociale prima che economico. L’istruzione allenta i vincoli economici e culturali che legano gli individui al proprio ambiente di origine, costituisce il principale strumento di liberazione dall’eredità familiare o geografica in capo alla nascita, aumenta democraticamente le probabilità che i più capaci e meritevoli accedano a funzioni di governo o della pubblica amministrazione, dell’impresa e della politica. La conoscenza è un bene comune non mercificabile, ed è la base della cittadinanza democratica. Implementarne lo spazio, la qualità, il perimetro è il compito dei modernizzatori del nuovo secolo. Il diritto di accesso ad essa, la libertà di scelta tra le offerte formative, l’abolizione di qualunque barriera formale e sostanziale che possa limitare il libero sviluppo della capacità umane, critiche e sociali di ciascun giovane del nostro Paese è l’obiettivo primario che un’organizzazione giovanile è chiamata a promuovere. E’ necessario andare oltre la migliore sintesi fra i diversi sistemi d’istruzione europei che, sin dall’inizio del Processo di Bologna del ’99, hanno affrontato i temi della conoscenza. Per garantire un alto profilo individuale e la mobilità studentesca oggi è prioritario non pensare soltanto all’uniformità dei sistemi di formazione, ma aver chiaro che la vera sfida sia garantire la possibilità a ciascuno di esprimere le proprie capacità senza doversi scontrare con le differenti legislazioni europee sul tema dell’accesso. Le politiche di formazione devono, in definitiva, mirare ad una cultura diffusa che promuova una crescita educativa integrale di cittadini attivi e responsabili, facendo leva sull’unità profonda tra sapere e saper fare, intelligenza umana e acquisizione di competenze: così da dare a tutti una piena autonomia di movimento nella complessità della società sapendo controllare se stessi in rapporto agli altri e alla pluralità dei linguaggi contemporanei. InnovazioneL’Italia è un paese che complessivamente genera e produce poca innovazione; ma l’innovazione è stimolata ed alimentata da un’organizzazione sociale ad essa preesistente. Il livello d’istruzione, la facilità di circolazione delle conoscenze, una fiscalità di favore per gli investimenti innovativi, una politica scolastica attenta ai talenti, una meritocrazia diffusa e riconosciuta, una maggiore libertà nelle relazioni interpersonali, un welfare che offra protezione “nel lavoro” e non solo “del posto” di lavoro, sono le condizioni preliminari perché una società generi e ne alimenti la fiamma. Le tare del sistema Italia si riproducono oramai da anni e si annidano nell’economia, nella struttura sociale e nei meccanismi della governance. Il made in Italy, quell’alchimia di artigianato e creatività che per anni ha fatto la fortuna del paese, rischia in assenza di avvedute politiche innovative, di trasformarsi in pochi anni da fiore all’occhiello di un’economia dinamica e creativa a fattore determinante dell’espulsione dell’Italia dal ciclo tecnologico. Investire in nuove tecnologie, nuovi processi e prodotti industriali, semplificare la burocrazia per le imprese, favorire e sostenere l’imprenditoria giovanile e femminile, in particolare nel Mezzogiorno, sono gli ingredienti necessari per una ricetta “generazionale” del rilancio economico. Il settore pubblico poi, non potrà non confrontarsi con nuovi criteri di organizzazione e regolazione del mercato, con innovativi sistemi di produzione di beni e valori pubblici, materiali (le linee ferroviarie e viarie, le scuole, le reti Tlc) e immateriali (il funzionamento della giustizia, la celerità della pubblica amministrazione, l’umanità della esecuzione penale). Il sostegno e la garanzia delle pari opportunità per i suoi cittadini, la promozione dei diritti civili, la difesa dei più deboli e di coloro che non possiedono autonomi e dignitosi mezzi di sostentamento: sono questi i pilastri su cui ergere l’edificio del futuro. Modernizzare una nazione per un’organizzazione giovanile democratica e riformista non può significare soltanto rimodellare il suo sistema produttivo a guisa del nuovo paradigma tecnologico. Significa anche (e soprattutto) attrezzarla alle sfide del presente perché possieda gli strumenti di analisi e di azione necessari per affrontare il nuovo secolo. RisanamentoSe tuttavia un intervento complessivo sulla competitività del Sistema - paese è fortemente legato all’innalzamento dell’alfabetizzazione superiore e della sua qualità da un lato, e alla riorganizzazione delle produzioni e degli strumenti di governance dall’altro, non si può eludere il nodo dell’intervento necessario sulle determinanti strutturali della spesa. Nessun disegno generazionale di rilancio può affermarsi senza una riconduzione su valori accettabili e sostenibili della dinamica del debito pubblico. La necessaria compressione delle spese di funzionamento dell’amministrazione di Stato ed enti locali - per essere virtuosa e non esclusivamente “punitiva” - dovrà fondarsi su nuovi e più stringenti criteri di valutazione dei risultati. Un rovesciamento della piramide degli incentivi che introduca reali meccanismi di premialità, per la burocrazia come per le università, gli enti di ricerca, le articolazioni periferiche dello stato, persino le regioni e gli enti locali, contribuirebbe ad un tempo a ridurre i costi e a potenziare l’efficienza complessiva delle pubbliche amministrazioni. È accanto a queste priorità riassumibili nel polinomio istruzione della popolazione – innovazione delle produzioni e dei processi produttivi – risanamento economico, che altre due esigenze per la piena soddisfazione di un disegno “generazionale” del rilancio del paese prendono corpo: la riorganizzazione del sistema previdenziale e la riduzione della precarietà nel mercato del lavoro.Welfare e pensioniL’Italia si appresta a divenire la nazione più vecchia e longeva del mondo e che questo avrà un effetto decisivo sulla struttura produttiva, sociale e di conseguenza previdenziale. La spesa pensionistica in Italia è pari al 15,4 per cento del prodotto interno lordo. L’uscita dalle forze lavoro è massima in corrispondenza dei requisiti minimi di pensione, attestati dopo i processi di riforma a 60 anni di età. Si tratta di una dinamica insostenibile per qualsiasi paese avanzato. Da decenni il dibattito sulle politiche sociali sembra incentrato quasi esclusivamente sul sistema previdenziale e mai su altre forme di spesa sociale quali il sostegno alle famiglie, ai giovani studenti o ai giovani lavoratori. Per questo essa necessita oggi di un’ulteriore estensione poiché gli indici di struttura e quelli del ricambio demografico testimoniano quanto il processo di invecchiamento della popolazione italiana sia duraturo ed avanzato. Il rapporto tra il potenziale di lavoro giovane (20-39) anni e quello più anziano (20-59 anni) tenderà a deteriorarsi rapidamente dalla attuale parità a 2 giovani ogni 3 anziani, mentre il ricambio tra generazioni in procinto di entrare nella fascia di età lavorativa e quelle in procinto di uscirne sarà in progressiva riduzione. In assenza pertanto di consistenti flussi migratori, la popolazione italiana è destinata ad avvitarsi in un processo in cui l’unico aggregato in posizione numerica attiva sarà quello della popolazione anziana; ma una popolazione che vede ridursi nel tempo non solo la sua consistenza progressiva ma anche sistematicamente quella dei suoi sub-aggregati economicamente e demograficamente più produttivi, rischia di impoverirsi irrimediabilmente e definitivamente. Il benessere raggiunto non può essere considerato come un dato acquisito o irreversibile. Ciò richiede una grande nuova consapevolezza da parte di una generazione chiamata a farsi carico direttamente di un problema non più rinviabile.LavoroIl precariato generalizzato e diffuso è un inaccettabile svilimento della dignità delle persone e del lavoro, che riparato dietro l’illusorio usbergo della riduzione dei costi mortifica le professionalità, le aspirazioni personali e quelle individuali. Sostenere la bandiera della “civiltà del lavoro”, significa costruire strumenti adeguati a proteggere il lavoratore nel suo percorso professionale, che seppure frammentato e rivoluzionato dai nuovi cicli di produzione, non può restare senza protezione in balia delle sole nude regole del mercato. A pagare il prezzo più alto anche in questo caso sono le giovani generazioni. Esse, in particolare la componente femminile, appaiono nel mercato del lavoro italiano tanti piccoli giunchi esposti ad un monsone. La riduzione della segmentazione del mercato, stabilendo regole più uniformi e in base alle quali il rapporto di lavoro acquisisca stabilità col passare del tempo, è richiesto da motivi di equità in via primaria, ma è anche sorretto da solide ragioni di efficienza. La battaglia per un lavoro sicuro, dignitoso, commisurato alle professionalità e alle competenze di tutti e di ciascuno è il primo dei diritti di cittadinanza cui aspirare, terreno essenziale per lo sviluppo della creatività e della personalità. Una battaglia che una nuova generazione di democratiche e democratici dovrà intestarsi con determinazione e passione.Concorrenza ed equitàL’intensificazione della concorrenza, l’ampliamento per l’esplicarsi dei meccanismi di mercato sono i restanti ingredienti di una matura e consapevole ricetta “generazionale” per il paese; essi sono, ancora una volta, necessari al rilancio produttivo e complementari a scelte di equità. In un’economia come quella italiana, nella cui storia è tristemente ricorrente il privilegio di pochi fondato sulla protezione dello Stato, la concorrenza costituisce un agente di giustizia sociale. Essa regolata e corretta da regole semplici, chiare e applicate è il grimaldello più autentico per scardinare quel poderoso grumo di interessi corporativi che in molti campi asfissia la nazione. L’Italia ha bisogno di mercato, di concorrenza, di legittima contendibilità degli spazi privati e persino di alcuni spazi pubblici. Una generazione di progressisti ha il suo nemico nel privilegio e non nel mercato, nella chiusura corporativa e familistica e non nella competizione. Se presidiato da una governance proattiva e coraggiosa, improntata alla realizzazione di pari condizioni nell’intrapresa di iniziativa economica, all’equità e alla giustizia sociale, il mercato resta un poderoso strumento di estensione del benessere e dei diritti individuali, un patrimonio da difendere e da tutelare dalla continua aggressione culturale e politica del pensiero reazionario, nazionalista e protezionista.Nuovi dirittiUna forza giovanile e progressista che guarda al futuro ha come obiettivo primario l’ampliamento di diritti, libertà e garanzie per la persona – il singolo come soggetto portatore di diritti –, valvola di conquiste sociali e collettive. La persona umana va tutelata, nella sua integrità, indipendentemente dal suo essere cittadino, ma anzi con l’obiettivo di una nuova inclusività che sia slegata da nascita, sangue, cultura, cittadinanza. Una forma di individualismo generoso che concepisce la società come luogo degli individui, con un’inversione del percorso tradizionale che conduceva dalla comunità al singolo. Maggiori garanzie per i detenuti, con l’incremento delle misure alternative al carcere a vantaggio di sanzioni alternative; libertà religiosa, riconoscimento delle confessioni presenti in Italia e sviluppo del sistema delle Intese; promozione di un sistema di norme che non equipari il migrante a mera forza lavoro, riforma del concetto di cittadinanza e voto amministrativo agli immigrati; riforma della normativa sui diritti del consumatore/utente e tutela della privacy; e diritti del malato; politiche di sostegno alla genitorialità; garanzia della libertà negli orientamenti sessuali. Molte di questi battaglie, oltre a permeare necessariamente una cultura politica di centro-sinistra riformista, possono contare su una forte capacità evocativa, in grado di sviluppare senso di appartenenza e desiderio di militanza, in tempi in cui assistiamo spesso al rischio di derive reazionarie, discriminatorie ed a regressioni addirittura razzistiche in segmenti della società e nelle pratiche politiche della destra.Diritto al protagonismo Il combinato disposto determinato dal binomio alto debito – bassa crescita non consente interventi di rilancio nazionale tarati esclusivamente sulla leva della fiscalità generale. Essa è importante, e fondamentale è l’azione di recupero degli introiti sottratti da evasione ed elusione; ma creare nuove opportunità di crescita economica in sintonia con la “questione generazionale” significa anche creare e propiziare spazi di protagonismo personale, civile e imprenditoriale. Negli ultimi trenta anni, in tutto il mondo occidentale si è assistito a uno spostamento in avanti dell’età alla quale i giovani fuoriescono dalla casa familiare definito come “posticipazione della transizione allo stato adulto”. L’Italia non a caso, si pone ai vertici di tale processo, distinguendosi per il tempo di permanenza dei figli nella famiglia d’origine. Nel resto dell’Unione europea solo un giovane su tre di età 18-34 vive con i genitori. Si sale invece in Italia a oltre il 60%, con una dinamica ancora più sconfortante per quello che riguarda le giovani donne. Tassi di attività e salari sensibilmente più bassi rispetto alla media degli altri paesi industrializzati, disoccupazione, sottoccupazione, precarietà del posto di lavoro a fronte di un welfare che fornisce scarsissima protezione sociale, sono le cause principali di tale ritardo. Un tale sistema che consente (se non addirittura favorisce) la permanenza dei giovani nella casa familiare è ancora una volta iniquo e inefficiente. È iniquo, perché affidando esclusivamente alla famiglia di origine i compiti di aiuto e sostegno svantaggia chi proviene da famiglie più povere, con uno status socio culturale più basso oltre che da famiglie monogenitoriali o ricostituite. Ciò deprime la mobilità sociale ed è funzionale alla riproduzione nel tempo delle disparità sociali di partenza. È inefficiente, perché mantenere una così elevata quota di giovani inattivi dal punto di vista lavorativo e riproduttivo, è un enorme spreco per la collettività, che reca pesanti ricadute sul dinamismo sociale, economico e culturale della nazione. Liberare una generazione significa costruire per essa la possibilità di progettare autonomi spazi di vita, di crescita, di socializzazione e di mobilità Immaginare il futuro significa anche e soprattutto costruire spazi per i più giovani, per la loro creatività, per il loro estro e il loro dinamismo. Nessuna società è mai cresciuta mortificando i suoi eredi, modernizzare il paese significa anche e soprattutto partire da qui. Dipende soltanto da noi, perché scegliendo l’impegno politico assumiamo la consapevolezza che nessuno spazio è concesso. Ma che per rinnovare bisogna essere migliori, più bravi e più forti di chi si intende sostituire alle leve del comando.Per una nuova cultura politicaTanto l’economia quanto la società italiana si presentano complessivamente restie ad assecondare l’innovazione, sia che essa riguardi nuovi processi produttivi, nuove tecnologie e prodotti, sia che riguardi l’accesso delle donne e dei giovani al mercato del lavoro o alle professioni liberali. Eppure assecondare il progresso e la diffusione della conoscenza, la capacità di tutti di accedere al ruolo sociale che si desidera e che si merita, la parificazione delle condizioni di vita e di occupazione dei generi, sono i soli elementi che hanno apportato una qualche forma di dinamismo alle società evolute e l’unica strada per sottrarsi alla legge dei rendimenti decrescenti. Sui giovani riformisti di questo paese grava pertanto un onere pesante e meraviglioso. Costruire quell’organizzazione giovanile popolare, a vocazione europea e riformatrice, che abbia le dimensioni e la forza per proporre e sostenere un grande progetto generazionale per il rinnovamento del paese, una forza politica giovanile inedita per la storia e per la tradizione italiana, che possa essere da esempio anche oltre i nostri confini. Il Partito Democratico rappresenta la più grande innovazione politica europea. In esso la nostra generazione, ha dimostrato di credere fortemente. Oggi, a partire da una prospettiva generazionale, possiamo essere noi il pezzo di società italiana che più convintamene fa vivere e da corpo al progetto politico di aggregare i giovani italiani attorno al simbolo e ai valori del Partito Democratico. Per questo, noi, giovani democratiche e democratici, cittadini italiani o giovani immigrati, donne e uomini dell’Italia di domani, diamo vita alla più grande organizzazione politica giovanile italiana. Una grande organizzazione moderna, che sia il sogno e l’approdo che migliaia di ragazzi e ragazze perseguono da tempo. Un’organizzazione politica autonoma ed affiancata al partito Democratico, in cui finalmente ciascuno si senta a casa, e non ospite di una carovana perennemente in transizione. Un corpo ampio e solidale di iscritti, militanti, simpatizzanti, semplici sostenitori, che svolga, nell’interesse generale della nazione, la funzione di rappresentare i giovani italiani che credono nel progresso della civiltà e della scienza, nella ragione, nella pace tra gli uomini e le nazioni, nel valore del lavoro e nella sua difesa, nei diritti umani e civili, nella libertà, nella difesa degli ultimi, dei meritevoli, nella democrazia e nel mercato, nella costruzione di un mondo più equo ma anche e soprattutto più vivibile, da lasciare a chi verrà dopo. Costruire un mondo migliore è l’aspirazione primaria che nutre l’impegno politico: cambiare la realtà partendo dalla propria strada o dal proprio quartiere. Per questo costruiremo un’organizzazione forte e radicata, capace di essere presente dovunque, dalle scuole alle università, dai luoghi di lavoro a quelli della cultura, ci siano dei giovani cittadini pronti a impegnarsi per un ideale di progresso per i popoli e per gli uomini, nelle dinamiche e produttive città del nord, come nelle troppo spesso dimenticate terre del Mezzogiorno. L’Italia avrà ancora un posto tra i grandi della terra; per questo obiettivo, per il suo raggiungimento, perché questo contribuisca a favorire lo sviluppo delle nazioni, la pace tra i popoli, la diffusione del benessere e della democrazia, la sostenibilità ambientale ci diciamo giovani democratici e in nome di questi valori costruiremo protagonismo e spazi per una generazione intera. Una generazione che non ha mai votato sulla scheda nulla di diverso dall’Ulivo prima e dal Pd finalmente oggi, o che non sia ancora mai andata a votare, che non è mai stata iscritta ad un partito della prima Repubblica. Una generazione nata politicamente dopo il 1989 che oltre a sentirsi italiana si sente pienamente e consapevolmente europea e che in Europa trova il luogo naturale in cui manifestare la sua vitalità e il suo protagonismo; una generazione che vive la mobilità come condizione permanente della propria esistenza che declina i valori europei come consituency di una nuova identità generazionale e collettiva. Un nuovo grande soggetto “generazionale” dove la laicità possa essere la grammatica comune delle forze costituenti, la koiné minimale della convivenza, ma dove tutti e ciascuno vedano rispettati i propri orientamenti, le proprie convinzioni religiose, etiche, morali. I “tempi nuovi” preconizzati da Aldo Moro sono già in noi. Essi, tuttavia, necessitano di essere guidati; con le emozioni forti di chi sa sognare ad occhi aperti e con la concretezza che accetta la sfida di trasformare i sogni in realtà. La storia d’Italia è stata la storia dei giovani italiani. Dei giovani soldati morti armi in pugno a Cefalonia, come dei ragazzi che hanno animato le Brigate Partigiane. Dei “professorini” alla Costituente, delle giovani generazioni che hanno incarnato il movimento degli anni sessanta senza poi cedere alle tentazioni del terrorismo. Ma è anche quella di tanti ragazzi normali, di storie, destini e volti che nel vivere l’ogni giorno del nostro Paese, l’hanno fatto grande. Giorgio La Pira, nel ricordare il giovane assessore Nicola Pistelli, fece affiggere sui muri di Firenze un manifesto semplice con scritto “da un piccolo chicco di frumento cresceranno tante spighe di grano nuovo”. Oggi noi seminiamo quel chicco. Sul solco tracciato dai padri che hanno scritto la Costituzione e fondato la Repubblica. Oggi noi sfidiamo i ragazzi e le ragazze che vivono il presente ad essere all’altezza del passato per costruire un grande futuro. Facendo incontrare cuore e mente, idee e progetti, passione e realtà. Chiediamo alla nuove generazioni che abitano il presente di mettersi in gioco, di essere generazione di governo, di scrivere un pezzo importante di storia della nostra comunità, di rifiutare il nulla, il poco e il menopeggio. Di scegliere il coraggio, la partecipazione, il confronto. Di essere, insieme a noi, coloro che cambiano l’Italia. Di essere insieme a noi, Generazione Democratica.

lunedì 21 luglio 2008

Due giorni fa ricorreva il 16esimo anniversario della sua morte



Ecco la trascrizione dell'intervista rilasciata dal magistrato Paolo Borsellino il 19 Maggio 1992 ai giornalisti Jean Pierre Moscardo e Fabrizio Calvi, così come è andata in onda in televisione. L'intervista venne registrata quattro giorni prima dell'attentato di Capaci in cui fu ucciso Giovanni Falcone. Due mesi dopo (il 19 luglio) lo stesso Borsellino fu ucciso nell'attentato di via D'Amelio a Palermo. L'intervista censurata da tute le televisioni nazionali fu pubblicata nell'aprile del 1994 da "L'Espresso", mentre un po' di tempo fa il gruppo Ds della Camera ha diffuso il testo della versione televisiva. L'intervista si apre con una dichiarazione di Borsellino.

Borsellino: Sì, Vittorio Mangano l'ho conosciuto anche in periodo antecedente al maxi-processo e precisamente negli anni fra il 1975 e il 1980, e ricordo di aver istruito un procedimento che riguardava delle estorsioni fatte a carico di talune cliniche private palermitane. Vittorio Mangano fu indicato sia da Buscetta che da Contorno come "uomo d'onore" appartenente a Cosa Nostra.

Giornalista: "Uomo d'onore" di che famiglia?
Borsellino: L'uomo d'onore della famiglia di Pippo Calò, cioè di quel personaggio capo della famiglia di Porta Nuova, famiglia della quale originariamente faceva parte lo stesso Buscetta. Si accertò che Vittorio Mangano, ma questo già risultava dal procedimento precedente che avevo istruito io e risultava altresì da un procedimento cosiddetto procedimento Spatola, che Falcone aveva istruito negli anni immediatamente precedenti al maxi-processo, che Vittorio Mangano risiedeva abitualmente a Milano, città da dove come risultò da numerose intercettazioni telefoniche, costituiva un terminale del traffico di droga, di traffici di droga che conducevano le famiglie palermitane.

Giornalista: E questo Mangano Vittorio faceva traffico di droga a Milano?
Borsellino: Vittorio Mangano, se ci vogliamo limitare a quelle che furono le emergenze probatorie più importanti risulta l'interlocutore di una telefonata intercorsa fra Milano e Palermo, nel corso della quale lui, conversando con un altro personaggio mafioso delle famiglie palermitane, preannuncia o tratta l'arrivo di una partita di eroina chiamata alternativamente, secondo il linguaggio convenzionale che si usa nelle intercettazioni telefoniche, come magliette o cavalli.

Giornalista: Comunque lei in quanto esperto, può dire che quando Mangano parla di cavalli al telefono, vuol dire droga.
Borsellino: Si, tra l'altro questa tesi dei cavalli che vogliono dire droga, è una tesi che fu avanzata alla nostra ordinanza istruttoria e che poi fu accolta al dibattimento, tanto è che Mangano fu condannato al dibattimento del maxi processo per traffico di droga.

Giornalista: Dell'Utri non c'entra in questa storia?
Borsellino: Dell'Utri non è stato imputato del maxi processo per quanto io ne ricordi, so che esistono indagini che lo riguardano e che riguardano insieme Mangano.

Giornalista: A Palermo?
Borsellino: Sì, credo che ci sia un'indagine che attualmente è a Palermo con il vecchio rito processuale nelle mani del giudice istruttore, ma non ne conosco i particolari.

Giornalista: Marcello Dell'Utri o Alberto Dell'Utri?
Borsellino: Non ne conosco i particolari, potrei consultare avendo preso qualche appunto, cioè si parla di Dell'Utri Marcello e Alberto, di entrambi.

Giornalista: I fratelli
Borsellino: Sì.

Giornalista: Quelli della Publitalia?
Borsellino: Sì.

Giornalista: Perché c'è nell'inchiesta della San Valentino, un'intercettazione fra lui e Marcello Dell'Utri in cui si parla di cavalli.
Borsellino: Beh, nella conversazione inserita nel maxi-processo, si parla di cavalli da consegnare in albergo, quindi non credo potesse trattarsi effettivamente di cavalli, se qualcuno mi deve recapitare due cavalli, me li recapita all'ippodromo o comunque al maneggio, non certamente dentro l'albergo.

Giornalista: C'è un socio di Marcello Dell'Utri, tale Filippo Rapisarda che dice che questo Dell'Utri gli è stato presentato da uno della famiglia di Stefano Bontade.
Borsellino: Palermo è la città della Sicilia dove le famiglie mafiose erano più numerose, si è parlato addirittura in un certo periodo almeno di duemila uomini d'onore con famiglie numerosissime, la famiglia di Stefano Bontade sembra che in un certo periodo ne contasse almeno 200, si trattava comunque di famiglie appartenenti a una unica organizzazione, cioè Cosa Nostra, i cui membri in gran parte si conoscevano tutti, e quindi è presumibile che questo Rapisarda riferisca una circostanza vera.

Giornalista: Lei di Rapisarda ne ha sentito parlare?
Borsellino: So dell'esistenza di Rapisarda, ma non me ne sono mai occupato pesonalmente.

Giornalista: Perché quanto pare, Rapisarda, Dell'Utri, erano in affari con Ciancimino, tramite un tale Alamia.
Borsellino: Che Alamia fosse in affari con Ciancimino è una circostanza da me conosciuta e che credo risulti anche da qualche processo che si è già celebrato. Per quanto riguarda Rapisarda e Dell'Utri, non so fornirle particolari indicazioni, trattandosi ripeto sempre di indagini di cui non mi sono occupato personalmente.

Giornalista: Non le sembra strano che certi personaggi, grossi industriali come Berlusconi, Dell'Utri, siano collegati a uomini d'onore tipo Vittorio Mangano?
Borsellino: All'inizio degli anni Settanta, Cosa Nostra cominciò a diventare un'impresa anch'essa, un'impresa nel senso che attraverso l'inserimento sempre più notevole, che a un certo punto diventò addirittura monopolistico, nel traffico di sostanze stupefacenti, Cosa Nostra cominciò a gestire una massa enorme di capitali, dei quali naturalmente cercò lo sbocco, perché questi capitali in parte venivano esportati o depositati all'estero e allora così si spiega la vicinanza tra elementi di Cosa Nostra e certi finanzieri che si occupavano di questi movimenti di capitali.

Giornalista: Lei mi dice che è normale che Cosa Nostra si interessi a Berlusconi?
Borsellino: è normale che chi è titolare di grosse quantità di denaro cerchi gli strumenti per poter impiegare questo denaro, sia dal punto di vista del riciclaggio, sia dal punto di vista di far fruttare questo denaro.

Giornalista: Mangano era un pesce pilota?
Borsellino: Sì, guardi le posso dire che era uno di quei personaggi che ecco erano i ponti, le teste di ponte dell'organizzazione mafiosa nel nord Italia.

Giornalista: Si dice che abbia lavorato per Berlusconi?
Borsellino: Non le saprei dire in proposito o anche se le debbo far presente che come magistrato ho una certa ritrosia a dire le cose di cui non sono certo, so che ci sono addirittura ancora delle indagini in corso in proposito. Non conosco quali atti siano ormai conosciuti, ostensibili e quali debbano rimanere segreti. Questa vicenda che riguarderebbe i suoi rapporti con Berlusconi, è una vicenda che la ricordi o non la ricordi, comunque è una vicenda che non mi appartiene, non sono io il magistrato che se ne occupa quindi non mi sento autorizzato a dirle nulla.

Giornalista: C'è un'inchiesta ancora aperta?
Borsellino: So che c'è un'inchiesta ancora aperta.

Giornalista (in francese): Su Mangano e Berlusconi a Palermo?
Borsellino: Sì.

giovedì 12 giugno 2008

24 anni fa moriva....


Grande era e grande resterà nella memoria....

ASSEMBLEA PROVINCIALE

Sabato 14 ore 14.15 a Ulignano Assemblea Provinciale dei Giovani del PD, interverranno: Il Coordinatore Provinciale del PD, il Coordinatore Regionale Provvisorio di Generazione Democratica e l'ex Segretario Nazionale della Sinistra Giovanile.

venerdì 6 giugno 2008

venerdì 23 maggio 2008

giovedì 22 maggio 2008

lunedì 12 maggio 2008

Nasce il sito del PD di Poggibonsi

Qualche giorno fa è nato il sito del Partito Democratico di Poggibonsi...
L'indirizzo è: www.pdpoggibonsi.it

martedì 6 maggio 2008

domenica 4 maggio 2008

Aldo Moro

I cento passi, MCR

Ricordiamoli entrambi

Venerdì sono ormai trent'anni dal giorno in cui moririrono due persone importanti, due persone i cui valori e le cui idee sono parte viva del nostro Partito. La lotta alla mafia portata avanti da Peppino Impastato, e la creazione di un Partito che potesse essere la casa di tutti i riformisti italiani voluta fortemente da Aldo Moro.

RICORDIAMOLI ENTRAMBI

Drammaturgia contemporanea: Statisti a confronto; atto secondo

Drammaturgia contemporanea: Statisti a confronto

sabato 26 aprile 2008

25 Aprile in Piazza del Campo

Manifestazione riuscitissima ieri a Siena...
Vi propongo alcune foto (le autorità, il camioncino con la musica organizzato dal coordinamento provinciale giovani PD insieme alla federazione si Siena di Studenti di Sinistra, ecc)

giovedì 24 aprile 2008















Venerdì 25 aprile ore 16 alla Lizza inizio manifestazione...

Difendiamo la storia e i nostri valori

E sul 25 Aprile rieccoli. Del resto c’era da aspettarselo, dopo le sortite di Dell’Utri sui manuali di storia, gli attacchi a Napolitano di Libero come «capo della Casta» figlio della prima Repubblica, e l’«ipotesi di scuola» di Berlusconi, per liberare il Quirinale dall’ inquilino che sta «di là».

Rieccoli all’attacco su un loro classico cavallo di battaglia: la delegittimazione di Resistenza e Liberazione. Degradata la prima a faida civile con crimini rimossi, non del nazifascismo ma della sinistra. E la seconda a «festa qualsiasi», ignorata dagli italiani, non condivisa, e come tale degna di sparizione.

Così dopo i primi assaggi di cui sopra, alla vigilia del 25, il Giornale apre i fuochi. Contro il «mito dell’antifascismo»: «fascisti e antifascisti? Tutti fascisti in fondo». E contro il «senso» che la festa non ha più, sostenuta com’è solo dalle oltranze violente antifasciste, eredità di un passato che non muore. Ma a sostegno della tesi, due bufale plateali ora. Visibili a occhio nudo. La prima è un ridicolo sondaggio del Giornale, pomposamente presentato come attendibile da Giordano Bruno Guerri. Sondaggio con un campione di mille unità, e domande «imbeccate» del tipo: «Il 25 aprile non lo sento tanto come festa nazionale italiana. È d’accordo con questa frase?». Oppure: «La festa del 2 giugno unisce gli italiani più del 25 aprile. È d’accordo». Ovvio che le risposte, per più della metà, combacino esattamente con la domanda. Il che fa esultare di gioia Guerri e i titolisti: «Il 25 Aprile che divide». Come pure scoperta è la manipolazione che sempre il quotidiano del Biscione compie sul comunicato unitario dell’Anpi e di varie sigle partigiane, incluse quelle sindacali. Dove, nell’annunciare la manifestazioine nazionale a Milano sulla Liberazione, si legge della Costituzione «attuale e vitale» frutto della Resistenza, e «difesa dalla stragrande maggioranza degli italiani». Del pericolo di smarrirne la sostanza e i valori, sventato dall’ultimo Referendum. E dei «rischi per la tenuta del sistema democratico», in una con le evidenti difficoltà «per il suo indispensabile rinnovamento». Parole normali, da inquadrare in un contesto pacifico e civile più ampio, e che non si riferiscono affatto al responso elettorale di dieci giorni fa. Come invece il Giornale suggerisce goffamente: l’Anpi vuole fare appello ai partigiani e alla piazza violenta contro la destra! Bensì al dato innegabile, registrato da tutti i comentatori, che l’Italia è in una stretta delicata. Finanziaria, istituzionale e politica. Dove il bipolarismo resta selvatico, il debito incalza e le risorse scarseggiano. Mentre i rischi della disunità d’Italia sono grandi. Visto che il sistema paese è diviso, tra aree in recessione e rivolta dei territori del nord. E con la Lega che chiede di destinare il 38% dell’Irpef alla Padania.

Dunque appello strumentale, con demonizzazione preventiva delle celebrazioni del 25 aprile e assalto al cuore simbolico dell’eredità antifascista. Per spiantarla dal codice genetico di questa Repubblica, la prima veramente democratica della nostra storia. E in virtù del suo assetto parlamentare, universalistico, fondato sull’intreccio tra diritti civili e diritti sociali.

Il copione è già visto, e ben presto a destra torneranno anche le litanie ufficiali sull’esigenza di abolire il 25 aprile, dopo l’anticipo mediatico. Conviene però tornare a domandarsi perché a destra insistano con tanto furore su questo tasto. Perché ricomincino sempre daccapo. E perché guarda caso Silvio Berlusconi, non abbia ancora mai partecipato ad una festa della Liberazione. La risposta la conosciamo già. La destra, per la terza volta al governo e senza l’argine dei post-democristiani moderati, si sente estranea e ostile all’eredità della Resistenza e della Costituzione. Reputa «comunista» la prima, e «sovietica» la seconda (parole di Silvio). Nel caso migliore ritiene che Resistenza e Costituzione vadano depurate dai germi di sinistra o di centrosinistra. Eliminando contenuti e forma del lascito in questione. Quanto alla forma, viene fatta valere l’idea che è stata l’«egemonia comunista» a conferire centralità storica alla stagione ciellenista e costituente. Occupando lo spazio della memoria e ipotecando tutta la vicenda del dopoguerra, inclusi «consociativismo» e rimozione di crimini. Sui contenuti invece, la destra ha di mira esattamente l’impianto parlamentare da un lato, e quello sociale e «gius-lavoristico» dall’altro. Insomma l’obiettivo resta spazzare via le Repubblica dei partiti e la Repubblica fondata sul lavoro, con garanzie e diritti annessi. Naturale che per conseguire tutto questo la destra di governo debba condurre una battaglia senza tregua, per «sbattezzare» la nostra democrazia dai suoi crismi originari. E «battezzare» con altro «rito» lo stato democratico. Come? In chiave liberal-liberista, decisionista e federal-corporativa. Con al centro un dominus imprenditore privato, che imprima allo stato uno «stigma» proprietario e aziendale. E che sia personalmente garante delle spinte centrifughe e corporative, territoriali e non solo. Ecco quel che può diventare «regime» e che minaccia di rovesciare tutto il suo peso sugli ordinamenti, in virtù di una forza parlamentare mai conseguita fino ad oggi. La novità, lo si accennava prima, sta nel fatto che il centro moderato di una volta si è molto indebolito. E non fa più da contrappeso interno, a una destra radicalizzata e verosimilmente senza freni. Si spiega dunque così l’impennata preventiva sul 25 aprile, irragionevole e smodata a prima vista. In fondo, dal loro punto di vista, potrebbero anche lasciar decantare la questione, se sul serio mirassero a intese bipartisan. Di contro scelgono l’attacco, con l’artiglieria mediatica, per spianare il terreno alla (loro) politica. Bene, è necessario rilanciare e in modo giusto. Prima di tutto sull’eredità della Resistenza, valorizzandone a pieno il significato di «matrice democratica» e unitaria del nostro stato. Ma al contempo occorre contrastare in simultanea populismo e localismo. «Premierato» e presidenzialismo. E a difesa dei diritti del lavoro, e delle regole democratiche in economia. Si gioca qui la partita del 25 Aprile, che non è una banale riccorrenza, né un mero trastullo storiografico. Ma è, e resta, la nostra lotta, il bandolo della nostra libertà, ieri come oggi. E a cominciare da domani, riconquistando Roma al centrosinistra, con la nostra storia. Contro quella sia pur «revisionata» di Alemanno.

L'unità 23/04/08

domenica 20 aprile 2008

Ave Silvio, morituri te salutant

Poteva andare peggio». «No». Così, nel 2001, Altan sintetizzava gli umori dell'elettorato di centrosinistra. Stavolta invece poteva andare peggio: poteva vincere Berlusconi e in più potevano tornare in Parlamento tutti gli artefici della sua terza, terrificante reincarnazione. Invece qualcuno resta a casa. Mastella s'è subito riciclato commentatore tv grazie al Tg2, come le vecchie glorie del pallone che non riescono a trovarsi un mestiere. Tweed Berty s'è accomiatato dalla classe operaia all'Hard Rock Bar di via Veneto, mentre la Lega faceva man bassa di tute blu a Mirafiori e Sesto S.Giovanni; poi, fra una telefonata dell'affranto ambasciatore Mario d'Urso e un sospiro di Guia Suspisio, è passato a salutare Vespa e Mentana, per poi proseguire verso il circolo del bridge. Lui almeno s'è dimesso. Giordano invece no: Fausto gli ha intimato: «Mantieni responsabilità e rotta». Soprattutto rotta, il piccolo segretario rifondarolo è dato «sull'orlo delle dimissioni», ma i pompieri sono già stati allertati e alla fine lo salveranno. Pecoraro Scanio, che a Natale inaugurava il nuovo hotel a 7 stelle in Galleria a Milano alla disperata ricerca del voto operaio, l'altro giorno inseguiva l'orso bruno misteriosamente scomparso dall'Adamello. Ora avrà molte tempo libero, ma di dimettersi non ci pensa neppure: anzi annuncia «un congresso straordinario dei Verdi», che è proprio quel che ci vuole «per una grande sinistra ecologista». Già prenotate alcune cabine telefoniche per ospitare l'evento. Diliberto intende «ripartire dalla falce e martello»: ecco, proprio quel che mancava. Cesare Salvi invece vuole «riaprire un ragionamento col Partito socialista», anche se faticherà a rintracciarlo, perché purtroppo non esiste più (0,7%): scomparso dal Parlamento italiano dopo 116 anni di presenza ininterrotta. Quod non fecerunt Craxi fecerunt craxini. Boselli però dice che è tutta colpa di Veltroni: «Walter ha responsabilità gravissime» in concorso esterno - si suppone - con gli elettori. Ma ora anche lui minaccia «un congresso», mentre Bobo Craxi s'interroga: «Adesso dovremo capire quanta gente c'è dietro quello 0,7%». Pochina, a occhio e croce. Con le percentuali se la cavava meglio papa Bettino: quando chiedeva il 5%, arrivava subito l'architetto Larini e glielo portava, in contanti. Una prece anche per Willer Bordon, che tre mesi fa ballava spensierato con l'amico Dini sul Titanic del governo Prodi, contribuendo a mandarlo a picco: la sua Unione Democratica Consumatori ha strappato un eccellente 0,3%. S'è consumata, democraticamente. Da dietro un cumulo di monnezza si fa vivo pure il neoassessore bassoliniano Claudio Velardi, che esulta perché - testuale - «il risultato del Pd in Campania va al di là di ogni più rosea previsione»: in effetti ha raccolto qualche voto in più dei lettori del Riformista. Totò Cardinale, che ha lasciato il seggio ereditario alla figlia Daniela, quella che «non leggo libro perché studio», assicura che la ragazza «ha contribuito a determinare il buon risultato del Pd, s'è fatta conoscere». Ma soprattutto riconoscere. Una prece per il Platinette Barbuto: 0,4%, 122 mila voti, un trionfo se si pensa che sono 15 volte i lettori del Foglio e un terzo dei telespettatori di Otto e mezzo. Intanto è già iniziata la corsa sul carro del vincitore, sport nazionale da un paio di millenni. Tutti a magnificare la «metamorfosi del Cavaliere» (quale?), il «nuovo profilo di statista», la prossima «fase costituente», magari con nuova Bicamerale. Nella notte Massimo Giannini di Repubblica dice addirittura che «il voto a Berlusconi condona i suoi processi e i conflitti d'interessi», come se si potessero mettere ai voti i reati e le illegalità, come se le urne sostituissero i tribunali, la Consulta e la Corte di giustizia europea. Emma Marcegaglia ha chiesto che «le imprese italiane ritrovino fiducia»: soprattutto due, Mediaset e Mondadori, che infatti l'altra sera schizzavano in Borsa come non mai. Intanto lo «statista» tornava sui «brogli di Prodi nel 2006». Annunciava di esser «pronto ad accettare i voti dell'opposizione sulle riforme», bontà sua. E cenava con Tarak Ben Ammar, Confalonieri, Doris, Galliani, Fede, Adreani, Ermolli, senza dimenticare l'avvocato Ghedini e il medico personale Zangrillo: praticamente, il nuovo governo.
L’Unità (16 aprile 2008)
Marco Travaglio

Si prega demonizzare il demonio

Tanto per cambiare, i veri sconfitti sono gli «esperti». Anzitutto i fattucchieri degli exit poll, che a questo punto non si capisce che li paghiamo a fare: forse anche Vanna Marchi è più attendibile di loro. E poi le mosche cocchiere dei grandi giornali che hanno speso fiumi d'inchiostro e riempito colonne di piombo per insegnare ai partiti che cosa si deve fare per vincere le elezioni e conquistare gli incerti. Gli incerti, cioè i grillini anticasta e i delusi dei grandi partiti, han fatto come sempre a modo loro. Alcuni sono rimasti a casa, ingrossando del 3 per cento le file del non voto (qualcuno dice che sono pochi: ma andatelo a raccontare a Piercasinando e a Tweed Berty, che il 3 per cento è poco). Altri si sono trascinati alle urne, votando per i due partiti più identitari, quelli che parlano chiaro, picchiano duro e si sa che cosa vogliono: la Lega Nord e l'Italia dei Valori. Gli esperti di nonsisachè avevano completamente ignorato Bossi e Di Pietro, considerandoli due incidenti della storia. Bossi parlava di fucili e Calderoli di cannoni, ma nessuno lo prendeva sul serio o dedicava editoriali alla nuova svolta secessionista del Carroccio, liquidandolo come folklore locale. Di Pietro predicava contro l'inciucio, per la libertà e il pluralismo dell'informazione soprattutto in tv, per la legalità e la tolleranza zero anche per i colletti bianchi, e veniva zittito come il solito giustizialista demonizzatore, lontano dai «veri problemi del paese» (che naturalmente sarebbero le «grandi riforme», da fare ovviamente «insieme», magari con un bel governissimo benedetto da Confindustria e Vaticano). Quei gran geni di Panebianco e Polito spiegavano addirittura a Veltroni che doveva scaricare l'Idv, magari per imbarcare qualche salma craxiana, ma soprattutto per non pregiudicare il Bene Supremo: cioè il «dialogo», la «legittimazione reciproca», le «riforme insieme». Ora che Bossi è decisivo per il Pdl e Di Pietro per il Pd, questi cosiddetti «esperti» cadranno dal pero e ci spiegheranno che le esigenze del Nord e i valori della legalità sono molto sentiti dalla gente. Oppure liquideranno il tutto come un «voto di protesta», trascurando la proposta. Che era molto chiara, netta e identitaria (fra l'altro, per quanto riguarda la Lega pigliatutto, leggermente inquietante). E la gente, soprattutto in tempo di crisi e di incertezze, sceglie le fisionomie ben definite. L'aveva scritto, purtroppo invano, Giovanni Sartori: le elezioni si vincono, da che mondo è mondo, attaccando l'avversario nei suoi punti deboli. O almeno nominandolo, ogni tanto. Solo così sì mobilita l'elettorato e si svegliano i titubanti dal letargo. Che cosa voleva la Sinistra Arcobaleno dell'imbolsito Tweed Berty? Non s'è capito (a parte lo scriteriato appoggio alla fantomatica «cordata italiana» per Alitalia), e ha perso. Che cosa voleva Piercasinando, sempre lì in mezzo tra color che son sospesi? Non s'è capito, e ha perso. Che cosa voleva il Platinette Barbuto, che diceva no all'aborto, ma sì alla legge 194? Non s'è capito, ed è letteralmente scomparso. Non pervenuto. Checché ne dicessero i tifosi del pareggio, i predicatori del dialogo, quelli convinti che «Berlusconi è cambiato», anzi «è stanco e forse lascia a Gianni Letta», che si apre «un nuovo ciclo» e che «la demonizzazione non paga», Silvio Berlusconi torna al potere per la terza volta infischiandosene del dialogo, restando sempre uguale a se stesso, e demonizzando gli avversari raccontando balle su balle, mentre gli avversari, che avrebbero potuto demonizzarlo dicendo semplicemente la verità, vi hanno rinunciato. Ecco, c'è almeno questo di buono: che nessuno, si spera, si azzarderà più ad attribuire le vittorie di Berlusconi ai «demonizzatori» che «fanno il suo gioco». In questa campagna elettorale, a parte l'Economist, il Financial Times, il Wall Street Journal, il New York Times, il Newsweek, lo Spiegel, Le Monde e altri organi del Comintern, l'unico demonizzatore è stato lui, che è riuscito persino a trasformare Uòlter in uno «Stalin mascherato» e dedito ai brogli (mentre i suoi brogliavano a più non posso). E ha vinto. Magari, ora che farà il suo terzo governo-regime a reti unificate (ha già annunciato che «Santoro continua a fare un uso criminoso della televisione pubblica» e qualcuno dovrà provvedere e qualcuno che provveda si troverà), varrebbe la pena di fargli l'opposizione e di demonizzarlo almeno un po'. Così, tanto per vedere l'effetto che fa.
L’Unità (15 aprile 2008)
Marco Travaglio

sabato 12 aprile 2008

Berluscomiche

Fortuna che la campagna elettorale è durata così poco, perché dallo scioglimento delle Camere (6 febbraio) il cavalier Berlusconi è riuscito a farsi fraintendere una sessantina di volte in 60 giorni. La cordata per Alitalia, con o senza figli. Le precarie promesse in spose a Piersilvio. La lotta e/o elogio all’evasione fiscale. Veltroni maschera di Stalin. Le grandi intese con la maschera di Stalin, I brogli. Le schede. La guerra al Quirinale. Il voto agli immigrati (pesce d’aprile). La sinistra cogliona, anzi no. Mastella in lista, anzi no. Le donne in cucina a fare le torte. Ruini alleato per il voto disgiunto. E il Viagra, e le veline, e noi maschi latini. E il nuovo Contratto con gli italiani: non pervenuto. E la sfida in tv a Veltroni (»lo straccio chiunque»): mai vista. E i giornali della Fiat che «non stanno né di qua nè di là», dunque non sono liberi, diversamente da quelli suoi e del Ciarra. Strepitoso quando ha promesso in tv (almeno due volte) «il traforo del Frejus», purtroppo già fatto dal 1871. Favoloso quando s’è attribuito una statura di «un metro e 71». Grandioso quando ha rievocato, dinanzi alla mummia di Riotta, gli sforzi sovrumani compiuti per trattenere Enzo Biagi, purtroppo fuggito dalla Rai con la liquidazione. Fantastico quando ha negato l’editto bulgaro e le corna al vertice di Caceres. Mitico quando ha annunciato che, se lo intercettano un’altra volta, espatria. Meraviglioso quando ha eccepito sulla cultura di Antonio Di Pietro (»La laurea gliel’han regalata i servizi»), per poi sfoggiare la propria citando «San Pietro sulla via di Damasco» (lui la laurea l’ha presa per corrispondenza?). Purtroppo Air France, non abituata al personaggio, l’ha preso sul serio e s’è ritirata da Alitalia. Uòlter invece lo conosce e ha ignorato i suoi deliri, evitando di restare impantanato nella solita girandola di detti e contraddetti. Ma il suo lungo silenzio sull’avversario ha fatto sottovalutare a molti indecisi i pericoli di un Berlusconi III, con relativi conflitti d’interessi (aumentati con i nuovi processi per corruzione, con l’ingresso in Mediobanca e con l’acquisto di Endemol che fornisce programmi alla Rai) e una corte dei miracoli ancor più scombiccherata dell’ultima: in lista col Pdl, oltre a una ventina di pregiudicati, ci sono persino Maurizio Saia, che diede della “lesbica” a Rosy Bindi; e il trio Barbato-Gramazio-Strano, che festeggiarono a sputi, champagne e mortadella la caduta di Prodi in Senato e il Cavaliere aveva giurato di non ripresentare. Mancano le parole? Basta copiare quelle di Indro Montanelli, anno 2001: «Il berlusconismo è la feccia che risale il pozzo, la destra del manganello». O l’appello firmato sette anni fa da
Bobbio, Galante Garrone e Sylos Labini: «A coloro che, delusi dal centrosinistra,
pensano di non andare a votare diciamo: chi si astiene vota Berlusconi. Una vittoria del Polo minerebbe le basi stesse della democrazia». Purtroppo i grandi vecchi sono morti, e anche noi ci sentiamo poco bene.
Marco Travaglio

venerdì 11 aprile 2008

Guccini per "Domenica fai il bis con L'Unità"

«Domenica, fate qualcosa di buono: comprate due copie dell’Unità. Una la regalate, l’altra la infilate nella tasca posteriore del pantalone. Non so se servirà a far vincere le elezioni a Walter Veltroni, ma di sicuro si entra per sempre in una vecchia canzone che si intitola “Eskimo”... ». A parlare è Francesco Guccini, autore di innumerevoli canzoni che la sinistra ha storicamente fatto sue, da «La Locomotiva» a «Eskimo». Proprio in quest’ultima viene citata l’Unità: «Con l’incoscienza dentro al basso ventre e alcuni audaci in tasca l’Unità... ». Un giornale, dice Guccini, «che parla chiaro, senza ipocrisie».

Azzardiamo: cos’è che lega, al di là delle reciproche passioni, una testata come l’Unità a Guccini? Toglietevi dalla testa che questa sia la prima domanda che rivolgiamo al più grande troubadour d’Italia. Secondo noi, ciò che accomuna questo quotidiano e Guccini è l’epica. Il primo la vive, il secondo la canta ma la minestra è la stessa. Tanto è vero che, lo si è ricordato in altri tempi, la sola volta in cui il nome dell’Unità è comparso nel testo di una canzone di larga diffusione è stato quando Francesco ha avuto la bellissima idea di citare il giornale fondato da Gramsci in quella commovente carrellata di immagini ruggentemente démodé titolata «Eskimo». Flashback: il brano racconta, per gli infelici che non lo sanno, cos’è stato il tempo andato, il suo e - a dispetto del fatto che lui si senta sotto il profilo emotivo il più vecchio del mondo - molto anche il nostro. Un tempo «barbaro» per durezze e per quella straordinaria capacità distribuita a piene mani a tanti giovani che allora avevano vent’anni «o giù di lì» di «vivre débout» di vivere stando in piedi, ben dentro quel tempo senza tempo, che se ne fregava della fisica scadenza dell’orizzonte in cui l’esistenza si consumava e si consuma. «Con l’incoscienza dentro al basso ventre - recitava Guccini - e alcuni audaci in tasca l’Unità»: rieccoci nella barbarità di una doppia, guascona «cazzutaggine», davanti e di dietro. Davanti c’era l’argentina arroganza di un sesso «libero» esercitato anche come professione di fede nei confronti di una teoria della liberazione che non aveva fatto i conti con l’Aids e che vantava una sua impertinente, politica dimensione; dietro, c’era quell’altra «erezione», provocante al limiti dell’oscenità sociale, costituita dall’Unità ripiegata tre volte e infilata, con la «U» della testata bene in vista, nella tasca posteriore dei bluejeans. Avere l’Unità in tasca poteva allora significare il più delle volte essere guardati male quasi dappertutto, non riuscire a trovare un posto di lavoro, far fatica a ottenere un alloggio pubblico, farsi diffidare dal preside della scuola, non essere invitato alle feste di compleanno delle amiche che avevano genitori «perbene», farsi diffidare dal datore di lavoro, essere segnalato alla polizia politica da qualche zelante cittadino. E non ottenere il visto per gli Stati Uniti, nel caso qualche compagno avesse avuto voglia di toccare con mano quel magnifico paese in cui gironzolavano Dylan e Peter, Paul and Mary, Joan Baez e Gregory Corso, Chomsky e William Borroughs.

Alla faccia del «consociativismo» che ora molti rimproverano al vecchio Pci. Era davvero una provocazione questo giornale...
«Non mi far fare il vecchio saggio: non mi sembra che nel tempo di Berlusconi la provocazione sia venuta meno. Anzi, nessuno prima aveva detto che l’Unità era un giornale assassino o terrorista. Invece, questo tipo di accuse è fatto recente. Si potrebbe dire che si è fatto un salto indietro ma non ne sono convinto...»

Nemmeno io: per la strada le cose son cambiate, tra la gente della vita quotidiana l’Unità non è più un saio da appestato...
«Mentre, invece, per la politica sì. Lo è ancora per la grande scena allestita da questo venditore molto ricco. Insomma, la testata mi sembra inserita a forza in un indice ufficiale che tiene ormai poco conto della realtà...»

Se aggiungi che, in virtù di questo indice all’Unità viene ancora negata la pubblicità che le spetta per le sue dimensioni e la sua diffusione, il quadro mi pare abbastanza fedele...
«Sarà vero che i tempi sono mutati ma non ci scommetterei che l’Unità non abbia nemici anche dentro la sinistra. Non ho mai capito perché Furio Colombo sia stato tolto dalla direzione. Chi è che ha voluto fare un favore a Berlusconi? Padellaro ha mantenuto la rotta, per fortuna, ma quella “decapitazione” si capiva benissimo cosa voleva dire...»

Torniamo all’epica, che forse è meno dolorosa. Secondo te, cos’è che fa dell’Unità ancora un giornale di “lotta”?
«Il coraggio, credo. Sono affezionato a due quotidiani, Repubblica e l’Unità, li leggo ogni giorno da molti anni. Parlano chiaro, senza ipocrisie e ci vuole coraggio per farlo. Le altre testate, mi pare, lasciano vedere di seguire con grande cautela ciò che accade, lo spostamento degli equilibri di potere nel paese; comunque vada non vogliono restare tagliati fuori e questo non originale modello di comportamento lo chiamano “indipendenza”. Ciascuno ha i suoi obiettivi e il suo vocabolario...»

Forse non siamo tutti d’accordo sull’interpretazione delle cose di oggi. Tra questione dei rifiuti in Campania e Alitalia, si ha per esempio la sensazione che questo paese non sia più in grado di “mantenersi”, che non abbia più le risorse per pagarsi il suo tenore di vita “occidentale”, che quindi può essere venduto a pezzi...
«Credo che siano più sensazioni ben motivate che condizioni oggettive. Viviamo un momento di sbandamento, economico, politico, psicologico, e tutto appare, a chi ha a cuore la consapevolezza e la libertà, grigio e senza speranza. Freniamo l’ansia e guardamoci attorno. Lo sai che, tanto per dirne una, nel Pisano c’è un comune che è diventato ricco trattando il riciclaggio delle spazzature? Basta organizzarsi. Bassolino avrà anche le sue responsabilità, ma, sacrificato lui, pare che la “bomba” sia esplosa dal nulla e non è vero. Calma e sangue freddo: ora abbiamo un problema, impedire alla cultura di Berlusconi di tornare a governare la cosa pubblica. Guarda la sceneggiata che ha fatto sull’Alitalia e sulle cordate alternative all’Air France: questo è il suo stile di governo mentre ancora non sta al governo. Pensa dopo. Se vince lui, fra una decina di giorni di problemi ne avremo una quantità esagerata...»

Pessimista?
«Non so cosa pensare. So quel che voglio. Vorrei che Veltroni vincesse, è il solo che può battere questa destra, è incontestabile. Ma vorrei anche che vincesse senza quei margini assurdi che hanno tolto a Prodi il diritto di governare fino in fondo. E per un settimana non ho alcuna intenzione di sganciarmi da questi semplici scongiuri. Se vogliamo cambiare questo paese quel tanto che serve a garantire un minimo di serenità alle nuove generazioni, conviene vincere, davvero...»

Il tuo pubblico sta su questa barricata?

«A quel che sembra, sì. A dispetto di una parte del paese che sbraita mossa da un egoismo da giardinetto privato, che si è fatta i soldi sull’onda dell’euro sbancando milioni di lavoratori, che ora straparla con l’arroganza del nuovo ricco sulla testa di un mare di nuovi poveri».

Cantavi: “col ghigno e l’arroganza dei primi della classe”
«Ah, ero io che cantavo questo?»

Prego: professor Guccini, vada pure con lo spot...
«Benissimo: domenica, fate qualcosa di buono: comprate due copie dell’Unità, una la regalate, l’altra la infilate nella tasca posteriore del pantalone».

Pare che se si fa così si vincono le elezioni
«Questo non lo so, ma di sicuro si entra per sempre in una vecchia canzone che si intitola “Eskimo”».

Bice Biagi su Silvio

Bice Biagi in un’intervista a Gianni Rossi per www.articolo21.info:

"Non vorrei fare la psicologa, soprattutto di Berlusconi. Mi sembra oggettivamente strano, come se la memoria di quello che è successo gli desse fastidio, come se volesse cancellare qualcosa. Ma purtroppo i fatti non si cancellano, soprattutto quando sono documentati. E, comunque, credo che di fronte a certe affermazioni non ci siano né giustificazioni ne scusanti. […] Dalle mie parti si dice che chi ha provato l’acqua calda, ha paura anche di quella tiepida. E noi l’abbiamo provata! Mio padre ricordava sempre quando Montanelli gli diceva: “Va bene, va bene Berlusconi, perché è come un vaccino”. E mio padre commentava: “Ho paura che abbiano sbagliato la dose!”. […] Vedo forti pericoli, perché leggo come tutti le dichiarazioni. Ancora una volta, Berlusconi parla di uso criminoso della televisione e, poi, sento dire di revisionismo dei libri di storia in materia di Resistenza. Sento parlare di eroi rispetto a persone condannate per mafia. Tutto questo certamente desta preoccupazioni. Sento che si attacca addirittura il Quirinale. Insomma, non sono sensazioni piacevoli, che dovrebbero far sperare casomai in un futuro di libertà, di democrazia, in un paese normale."

martedì 1 aprile 2008